Ci sono momenti in cui la nostra identità si frantuma. Non è un processo graduale, non è una trasformazione scelta. È qualcosa che accade, spesso senza preavviso. Un evento – una malattia, una separazione, un fallimento, una perdita – irrompe nella nostra vita e porta via pezzi di noi. Pezzi che credevamo inamovibili, che ci definivano, che erano il nostro modo di stare al mondo. E quando quei pezzi si spezzano, resta il vuoto. Una domanda che rimbomba: chi sono adesso?
È una domanda dolorosa perché mette in discussione qualcosa di profondo. Siamo abituati a pensarci come identità coerenti, continue nel tempo. Costruiamo la nostra immagine su elementi riconoscibili: il lavoro che facciamo, il ruolo che abbiamo nelle relazioni, il nostro corpo, il nostro carattere, la nostra storia. Eppure, se basta un evento per mandare tutto in crisi, forse non siamo mai stati così solidi come credevamo. Forse la nostra identità è più fragile, più fluida, più instabile.
Carl Rogers parlava dell’incongruenza come uno stato di sofferenza in cui l’immagine che abbiamo di noi stessi entra in conflitto con l’esperienza che stiamo vivendo. Se ho sempre pensato di essere una persona forte, ma la malattia mi rende vulnerabile, se mi sono sempre definito attraverso una relazione, ma ora quella relazione non esiste più, se il mio valore era legato al mio lavoro e ora quel lavoro non c’è, cosa rimane di me?
Spesso la prima risposta è il panico. La sensazione di non avere più un terreno sotto i piedi, di non riconoscersi più. È il momento in cui si attivano le strategie di sopravvivenza: cerchiamo di ricostruire un’identità il più in fretta possibile, di sostituire i pezzi mancanti con altri simili, di trovare un nuovo equilibrio che ci faccia sentire di nuovo interi. Ma l’identità non è un puzzle che si può rimettere insieme a piacimento. È qualcosa di più vivo, di più complesso. E quando proviamo a rimettere insieme i pezzi troppo in fretta, spesso lo facciamo senza ascoltarci davvero.
La verità è che il dolore dell’identità spezzata non si risolve con una soluzione immediata. Serve il coraggio di stare nel vuoto, nella frattura, nel momento in cui non sappiamo più chi siamo. Serve uno spazio in cui poter dire: “Non so”, senza che questo sia un fallimento. È proprio nell’incertezza che possiamo iniziare a trasformarci. Rogers parlava della tendenza attualizzante come della capacità intrinseca di ogni essere umano di crescere, evolvere, trovare nuove forme di esistenza. Ma questa crescita non è imposta dall’esterno, non segue tappe predefinite. Nasce dall’ascolto profondo, dalla possibilità di sentire chi siamo in questo momento, senza giudizio.
Forse la vera identità non è qualcosa di rigido, ma un processo. Non siamo definiti da ciò che facciamo, dai ruoli che ricopriamo, dalle persone che ci circondano. Siamo l’esperienza che viviamo, il modo in cui ci permettiamo di sentirla, di attraversarla, di darle un significato. E quando qualcosa di importante si rompe, non significa che siamo meno di prima. Significa solo che stiamo cambiando. E il cambiamento non è una perdita, anche se all’inizio può sembrarlo. È un nuovo modo di essere, che ancora non conosciamo, ma che ha già iniziato a esistere dentro di noi.