Quando il cibo diventa un rifugio

il legame invisibile tra emozioni, cervello e stress

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Mangiamo per fame, dicono. Peccato che a volte la fame non sia nello stomaco, ma in un buco più profondo e vischioso, un vuoto che il cibo prova a riempire ma che resta lì, insaziabile.

I disturbi del comportamento alimentare non sono solo numeri sulla bilancia, calorie contate o specchi che ingannano. Sono un dialogo muto tra il corpo e la mente, un codice che parla di emozioni represse, di dolori sommersi, di una guerra interna che si combatte a colpi di forchetta o di digiuni forzati.

La letteratura scientifica lo conferma: il cibo può diventare un rifugio emotivo quando le parole non bastano.

Fairburn e Harrison (2003) hanno descritto come fattori biologici, psicologici e ambientali si intreccino nei DCA, rendendoli molto più di un semplice problema con il cibo.

Kaye et al. (2009) parlano di disregolazione nei circuiti della gratificazione e del controllo, il che spiegherebbe perché certe emozioni si riversino direttamente nel piatto. È come se il cervello, in difficoltà a gestire lo tsunami emotivo, trovasse nel cibo l’unico modo per regolare ciò che sfugge di mano.

E chi ci è dentro lo sa: il problema non è mai solo quello che si mangia o non si mangia, ma quello che si sente e non si riesce a dire.

Le neuroscienze hanno evidenziato che nei DCA si verificano alterazioni significative nei circuiti cerebrali. L’amigdala, struttura centrale nella regolazione della paura e delle emozioni, mostra un’iperattivazione nei soggetti con anoressia e bulimia (Berner et al., 2017). Questo potrebbe spiegare perché il cibo, invece di essere solo nutrimento, diventa un elemento carico di ansia e tensione. Parallelamente, si osserva una ridotta attività della corteccia prefrontale, l’area deputata al controllo cognitivo e alla regolazione delle risposte emotive (Zhu et al., 2012).

In altre parole, il cervello non riesce a frenare certe reazioni impulsive, motivo per cui alcuni si rifugiano nelle abbuffate o nel digiuno forzato.

Un ruolo fondamentale è giocato anche dal sistema della dopamina, il neurotrasmettitore della gratificazione e della motivazione. Studi hanno dimostrato che nei soggetti con DCA, la risposta dopaminergica al cibo è alterata (Frank et al., 2012): chi soffre di anoressia prova un senso di disagio o addirittura paura davanti a un pasto, mentre chi soffre di bulimia o binge eating può sperimentare un temporaneo sollievo nell’abbuffarsi, seguito da sensi di colpa e vergogna.

È un circolo vizioso in cui il cervello impara a usare il cibo come regolatore emotivo, rendendo difficile interrompere il ciclo senza un supporto adeguato.

Un altro elemento centrale è il ruolo dello stress. Quando i livelli di stress sono elevati, il corpo attiva l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), aumentando il rilascio di cortisolo, l’ormone dello stress.

Studi hanno evidenziato che nelle persone con DCA questo asse risulta iperattivato (Monteleone et al., 2011), il che può favorire risposte alimentari disfunzionali. Alcuni cercano di compensare lo stress con il cibo, abbuffandosi per ridurre momentaneamente l’ansia, mentre altri cercano di riprendere il controllo eliminandolo del tutto. Il cibo diventa così un’illusione di gestione emotiva, un tentativo di placare il caos interiore attraverso una strategia che, alla lunga, finisce per diventare parte del problema.

C’è chi restringe fino a scomparire, perché occupare spazio fa paura. Chi mangia compulsivamente fino a soffocare le emozioni sotto strati di cibo, come se potesse seppellire la rabbia, la tristezza, la vergogna. Chi alterna i due estremi, spinto da una fame che non è biologica ma esistenziale.

Tutto questo ha poco a che fare con la volontà e molto con la necessità di sopravvivere in un mondo interiore che spesso è ostile. Il cibo diventa un anestetico, un calmante, una punizione, un grido silenzioso che si traduce in abbuffate o in digiuni, in un controllo estremo o nella perdita totale di esso.

I DCA sono complessi e non si risolvono con frasi fatte o con la convinzione che “basta mangiare di più” o “basta smettere di abbuffarsi”. La ricerca ha dimostrato che questi disturbi necessitano di un approccio integrato, perché sono un nodo intricato che coinvolge il corpo, la mente e le relazioni. Nessuna scorciatoia, nessuna soluzione magica.

Solo un percorso che, passo dopo passo, insegna a distinguere la fame vera da quella che parla di emozioni inespresse. Perché alla fine il cibo è solo un messaggero. Il punto è capire cosa sta cercando di dirci.