Ci sono battaglie che non ci appartengono, ma in cui ci tuffiamo lo stesso. Lo facciamo per amore, per senso di responsabilità, per l’idea che, se ci sforziamo abbastanza, possiamo guarire chi amiamo.
Cambiarlo, alleggerirlo, fargli vedere la luce. Ci convinciamo che il nostro amore possa essere abbastanza per sanare ferite antiche, per riempire vuoti che non abbiamo creato. E quando questo non accade, quando l’altro resta incastrato nei suoi meccanismi distruttivi, ci sentiamo frustrati, impotenti, persino colpevoli.
Ma fino a che punto è amore e quando diventa sacrificio? Quando il prendersi cura dell’altro si trasforma in un farsi carico della sua guarigione?
Non esiste una linea netta che separi queste due dimensioni. Esiste un confine sfumato, che a volte oltrepassiamo senza rendercene conto, mossi dall’idea che, se ci impegniamo abbastanza, se restiamo abbastanza, se diamo abbastanza, l’altro cambierà. E invece restiamo lì, a dare tutto, mentre l’altro prende senza mai riuscire a farne davvero qualcosa.
Carl Rogers diceva che ogni persona ha dentro di sé la capacità di crescere e cambiare, ma questa crescita può avvenire solo dall’interno.
Nessuno può guarire al posto di qualcun altro. Nessuno può portare sulle spalle il dolore dell’altro sperando di dissolverlo. Eppure, molte relazioni si costruiscono su questo fraintendimento: se ti amo abbastanza, ti salverò.
È il tipico schema di chi si lega a persone indisponibili emotivamente, a partner instabili, a chi sembra sempre a un passo dal cambiamento ma non lo compie mai. E più l’altro resiste, più l’illusione si rafforza: se non ha ancora cambiato, è perché devo fare di più. Se ancora non mi ha scelto davvero, è perché non sono abbastanza. Se ancora soffre, è perché non l’ho salvato nel modo giusto.
L’illusione di poter salvare l’altro nasconde spesso un bisogno più profondo: quello di sentirsi indispensabili. È rassicurante pensare che il nostro amore possa essere la chiave che apre porte chiuse da tempo, che il nostro affetto possa colmare vuoti che nessuno prima di noi è riuscito a riempire. Se l’altro cambia grazie a noi, allora significa che abbiamo valore. Se l’altro ci sceglie dopo aver resistito, allora significa che siamo abbastanza.
Ma essere amati non significa essere necessari. E se la nostra intera identità si costruisce sul bisogno di essere la cura per qualcuno, allora quel bisogno non è più amore, è dipendenza.
A volte è più facile provare a salvare qualcuno piuttosto che guardarci dentro e chiederci perché abbiamo bisogno di farlo.
Forse perché ci siamo sempre sentiti noi stessi qualcosa da aggiustare, qualcosa da meritare.
Forse perché crediamo che, se riusciamo a guarire l’altro, potremo finalmente sentirci degni di essere amati.
Forse perché, nel salvare, troviamo un senso, un’identità, un ruolo che ci fa sentire vivi.
Ma fino a che punto è davvero amore e non paura? Fino a che punto ci stiamo prendendo cura e non stiamo cercando di controllare?
Ci sono persone che restano accanto a chi non vuole essere salvato, convinte che con il tempo, con il sacrificio, qualcosa cambierà. Ci sono persone che si perdono nelle dinamiche tossiche di un amore sbilanciato, che sacrificano i propri bisogni, che accettano il dolore pur di non sentirsi abbandonate.
E poi ci sono quelle che un giorno capiscono che la lotta non è loro, che il dolore dell’altro non può essere preso in carico, che l’amore non è una battaglia da vincere.
Amare qualcuno non significa salvarlo. Significa esserci senza annullarsi, senza cancellarsi, senza perdere sé stessi nel tentativo di tenere in piedi chi non vuole stare in piedi da solo.
La domanda da porsi, quindi, non è come posso aiutarti, ma perché sento il bisogno di farlo. Il vero amore non è trascinare qualcuno fuori dal buio, ma offrirgli una luce e aspettare che sia lui a decidere di accenderla.