Il lusso della fragilità

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«Non posso permettermi il lusso di essere fragile.»

È una frase che spesso emerge quando un evento critico, come una diagnosi oncologica, interrompe la continuità della vita e obbliga a ridefinire tutto: sé stessi, i legami, il significato delle cose. Racchiude la tensione tra la necessità di apparire forti e il bisogno profondo di riconoscere la propria vulnerabilità.

Di fronte a una diagnosi che minaccia la sopravvivenza, il sistema personale e relazionale entra in uno stato di riorganizzazione. Il corpo cambia, il tempo cambia, cambia la percezione di sé. Le persone attivano strategie di adattamento per continuare a vivere la quotidianità, mentre la mente cerca di mantenere una forma di controllo. In questo contesto, la fragilità viene spesso vissuta come qualcosa da trattenere: si teme che mostrarla possa destabilizzare gli altri, aumentare il carico emotivo, o farci apparire “deboli”.

Ma spesso il motivo per cui non portiamo la nostra fragilità non è solo la paura del giudizio: è la convinzione che l’altro non sarebbe in grado di comprenderla. Perché, magari, in passato non ha saputo ascoltare, accogliere, o sostare accanto alla nostra sofferenza. Perché non ha saputo immedesimarsi in una vita che, improvvisamente, ha perso i suoi punti di riferimento. Questo genera sfiducia, e così ci si chiude: “me lo tengo dentro, tanto non capirebbe”. Ma trattenere pesa. Pesa sul corpo, sulle emozioni, sulla qualità della vita stessa.

E tuttavia — e questo è un punto fondamentale — l’altro che non riesce ad accogliere non è necessariamente “cattivo” o privo di empatia. È, anche lui, un microcosmo in cui la vita accade. Porta con sé limiti, paure, traumi, un proprio sistema di valori e di significati. Spesso la sua incapacità di comprendere nasce non da indifferenza, ma da paura: paura di disintegrarsi di fronte al dolore altrui, paura di non sapere come reagire, paura di essere toccato da ciò che ricorda la perdita, la sofferenza o la morte. È una forma di istinto di sopravvivenza, una tendenza all’evitamento che protegge, ma che — inevitabilmente — crea distanza.

Comprenderlo non giustifica la mancanza, ma permette di guardare la relazione con più consapevolezza e meno rancore. Accogliere e portare la propria fragilità diventa allora un atto di verità. ; È un dovere verso sé stessi, perché negare le proprie emozioni significa rinunciare a una parte viva della propria identità; è un dovere verso la relazione, che può crescere solo nell’autenticità. Mostrarsi per come si è — con le proprie giornate sì e le proprie giornate no — significa dare spazio alla vita reale, non a quella idealizzata. È in questospazio che la relazione diventa generativa, capace di trasformarsi e di sostenere.

C’è poi un fraintendimento diffuso intorno al concetto di forza. Chi osserva da fuori tende a dire: «Sei stato forte, io non ce l’avrei fatta». Ma questa non è forza, almeno non nel senso eroico che spesso le si attribuisce. È istinto di sopravvivenza, la spinta vitale che, come affermava Carl Rogers, rappresenta la tendenza attualizzante dell’essere umano: il movimento naturale verso la conservazione e l’evoluzione della vita. Non scegliamo di essere forti; semplicemente, rispondiamo alla vita che insiste, che ci chiede di andare avanti.

Il vero compito arriva dopo, quando l’emergenza si placa. Quando le cure, le terapie o gli interventi finiscono e resta il silenzio. È in quel tempo sospeso che occorre ritrovare le risorse, le capacità adattive e la possibilità di rinascita tipiche del post-trauma. Per questo è fondamentale avere uno spazio — personale e relazionale — in cui potersi permettere di essere anche una terremotata, anche fragile, anche semplicemente umana.

Perché la fragilità, lungi dall’essere un lusso, è la nostra forma più autentica di verità. È ciò che ci restituisce alla vita, a noi stessi e agli altri. E riconoscerla non ci indebolisce: ci rende interi.